CRONICA XIII

Fabio Brotto

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PERDUTA. C'è molto oblio, tutto intorno. Tutti dimenticano, altro che Giornata della Memoria, bisognerebbe indire l'Anno della Memoria, e non basterebbe. Leggo nel bellissimo libro di Gustaw Herling Gli spettri della rivoluzione (Ponte alle Grazie, Firenze 1994) che nell'anno 1892 si ebbero solo negli USA 500 attentati dinamitardi, 1000 in Europa. Era la grande ondata terroristica anarchico-nichilista. Mnemosíne, dove sei? Perduta. La memoria collettiva, ammesso che esista, è soltanto la continua rielaborazione del passato ad uso del presente, e degli interessi dominanti del presente. Noi non viviamo in un mondo totalitario come quello descritto da Solženicyn, Šalamov, o dallo stesso Herling, ma anche la nostra market oriented society ha un rapporto estremamente problematico con il proprio passato, ed ogni società, per quanto pluralistica, tende ad imporre il proprio unificante senso comune. Uno dei canali di formazione di questo senso è la scuola. È per questo che quando i nostri uomini politici pensano alla scuola, ai programmi scolastici, sembrano interessarsi soprattutto alla Storia. Essi pensano alla scuola, in fondo, come luogo prevalentemente ideologico. A ben vedere, gli studenti--quelli che pensano, o credono di pensare--non sono da meno. Avvertono, ad esempio, la difficoltà di esprimere le proprie idee, pensano cioè di averne, e di non essere messi in grado, dall'istituzione scuola e dai singoli insegnanti, di esprimerle e confrontarle. Dei saperi disciplinari v'è poca cura, sia in alto che in basso, e la storia stessa è concepita come ideologia e omologazione.

Ho deciso di leggere tutta l'opera di V.S. Naipaul, perché mi affascinano i grandi sradicati, soprattutto se non sono di origine europea. Naipaul è nato nell'isola di Trinidad da una famiglia indiana (di origine nepalese, a giudicare dal nome). Ho in mano il volumetto Leggere e scrivere (Adelphi, Milano 2002). C'è qualcosa di struggente, qui, che riguarda l'oblio. Il paesino dell'isola di Trinidad in cui nasce Naipaul si chiama Chaguanas, che è un nome indigeno, ma nell'isola di indigeni non c'è traccia, vi risiedono solo inglesi, neri ed indiani (dell'India). Lo scrittore ricerca, e finisce per scoprire che esisteva all'inizio del Seicento una tribù, quella dei Chaguanes, annientata dagli Spagnoli per aver guidato gli inglesi di Raleigh in una scorreria. Uno sradicato vivo che ha pietà degli assolutamente sradicati, di coloro che non solo non hanno memoria, ma non appartengono ad alcuna memoria. Gente perduta. E penso che se la storia che si insegna nella scuola non è animata da spirito di pietà è una storia vana, meccanica e, ahimè, ideologica.

PROSPETTIVA. Anis Zaki è un impiegato. Una di quelle figure dalla vita grigia che passano gran parte della loro esistenza tra le scartoffie, scontenti e frustrati. Ne è piena la letteratura degli ultimi due secoli, perché ne è piena la realtà. Anis Zaki non è europeo, vive al Cairo, ma questo non cambia molto. Forse nella vita avrebbe potuto fare il maestro o il professore, e sarebbe stata un po' meno grigia, non di molto forse. Lo trovate nelle pagine di Chiacchiere sul Nilo di Naghib Mahfuz (Tullio Pironti Editore, Napoli 1994). Lui ogni sera si trova con gli amici sulla sua ‛awwamah (casa-barca) e passa ore a fumare hashish e chiacchierare: ne risulta un quadro di gente vuota e impotente. La ‛awwamah di Anis Zaki mi ricorda--allegorice dico--la scuola italiana di oggi. Impiegati (o compagni, siamo forse altro?) frustrati, fumosità dalle alte sfere che ci intontisce e ci droga.

PERVERSA. Leggendo Mont Cinère, il romanzo giovanile di Julien Green (1926, trad. italiana di M. Forti, Longanesi, Milano 1987), mi sono imbattuto in una singolare figura di avara, affetta da un'avarizia organica e totale, che risparmia su tutto, veste di stracci e intanto non tocca mai il suo grosso conto in banca. Simili figure, lo dimostra ogni tanto la cronaca, esistono certamente nella realtà della vita quotidiana. Penso agli insegnanti che ho incontrato: in verità tra di loro non ho conosciuto molte persone affette da questo vizio capitale. Da altri sì: molta invidia, parecchia accidia, ira anche (io ne sono toccato, il mio idolo è Marco Lombardo), gola abbastanza, mettiamoci il tabacco e un po' di lussuria, e un tocco di superbia in qualche caso. L'avarizia nel mio ceto è scarsa, per quanto riguarda i beni di questo mondo, anche se adesso c'è chi è pronto a prostituirsi per qualche euro. Piuttosto, fra di noi c'è gente avara di energie. Alcuni non ne hanno più da spendere, certo, dopo venticinque o trent'anni di insegnamento uno non ce la fa più, a volte. Però ci sono molti anche che proprio non si spremono, che cercano in tutti i modi di far poca fatica. Costoro sovente diventano maestri in quest'arte, e, non amando l'insegnamento, cercano tutte le vie per uscirne. Una è diventare Dirigenti. Il Dirigente, come si sa, può affaticarsi, se vuole, assai poco. Secondo un mio amico, gli insegnanti mediocri hanno qualche possibilità di diventare Dirigenti, e i Dirigenti mediocri la possibilità di diventare Ispettori. Siffatte proposizioni sono simpatiche, ma colgono la verità solo parzialmente. Del resto, un conto è la mediocrità, un'altra l'avarizia organica delle forze, il rifiutarsi ad ogni dispendio delle proprie energie. Il Dirigente che preferisco è quello meno dannoso. Oggi considero tanto più dannoso un Dirigente, quanto più tempo sia stato lontano dall'insegnamento, e quanto meno l'abbia amato. Ma, siccome i tipi umani sono infiniti, e Bene e Male sono intrecciati ovunque, regole non vi sono. Ho chiaro però un concetto: l'amministrazione è una cosa, la didattica un'altra, e la capacità di gestirle entrambe è da pochi. Ogni scuola dovrebbe avere due dirigenti, uno politico-amministrativo in diarchia col direttore amministrativo, l'altro, elettivo, dedito esclusivamente alle questioni didattiche, al supporto agli insegnanti, ecc. Ma si verrebbe a spendere qualcosa in più (ben poco, basterebbe utilizzare gli attuali vicari), e lo stato è avaro. Lo è per le cose buone, è un'avarizia perversa.

PASTICCI. Qualche tempo fa, nell'inserto Sette del Corriere della Sera è uscito un articolo di Fabrizio Rondolino che diceva più o meno questo: gli studenti di oggi sono culturalmente apatici e disinteressati al mondo che li circonda, differendo radicalmente dalla generazione studentesca dei propri genitori, pronta a lottare per avere in classe la discussione di qualche tema di attualità, di cui invece agli odierni non importa una mazza. Il Rondolino è andato infatti a parlare cogli insegnanti della figlia ginnasiale, trovandoli aperti e interdisciplinari, insomma bravi secondo lui, ma giunti in scena troppo tardi, con gli allievi sbagliati nel momento sbagliato: stalle aperte, buoi fuggiti, tutto è perduto.

Ho dato ai miei allievi di prima liceo il testo del Rondolino come prova di italiano: dovevano rispondergli con un "articolo" delle stesse proporzioni--si sa che bisogna allenare gli studenti alla modalità articolo di giornale, urgh!--esprimendo consenso o dissenso parziali o totali alle tesi espresse da colui che fu collaboratore di D'Alema. Gli esiti non sono stati negativi, gli studenti si sono impegnati, alcuni si sono contrapposti decisamente alle tesi rondoliniane, e tuttavia mi sembra persistere un equivoco, sia in Rondolino che nei ragazzi: pensano quasi tutti che la scuola buona sia quella in cui gli studenti esprimono le loro idee. Io invece penso che la scuola buona sia quella che induce gli studenti a rendersi conto che devono studiare un sacco se vogliono capire qualcosa, che devono pensare molto prima di aprire la bocca e sentenziare, quella che fa capire ai giovani che, non sapendo essi un accidente di niente, possono trarre vantaggio spirituale dallo studio, quella che dice a chi la frequenta: vuoi che la mente ti si apra? allora segui questa strada faticosa. Il sessantottismo di Rondolino si rivela nel suo culto della interdisciplinarietà, che invero è non-disciplinarietà: leggere in classe un articolo della Mafai--ahi! ahi!--è segno, per lui, del valore del docente. Il feticcio interdisciplinare! Pensate all'orrore della prima parte del colloquio di maturità, quella in cui i candidati presentano alla commissione le famigerate e abominevoli mappe (che io chiamo pappe) concettuali: quei fogli tutti pieni di riquadri, frecce e freccette, cerchi, ovali, disegnetti, ecc. ecc., in cui si salta di palo in frasca e di ramo in remo. A dire il vero, per poter cucinare delle pappe concettuali bisognerebbe aver in mano un qualche straccio di concetto, che si conquista con la relativa fatica, cui tutto l'apparato scolastico è oggi ideologicamente avverso. Ora, io non sono così sciocco da pensare che le situazioni si creino da sole, senza ragioni, né credo, come credono quelli del CNADSI, che la colpa del pasticcio sia da addebitare alla Sinistra (altrimenti in Franza et Spagna sarebbe la cuccagna, il che non è): io penso che la questione sia una questione di antropologia docente. Detto in altri termini: che fauna alligna sulle nostre (basse) cattedre, nelle nostre Presidenze? E perché?

O Rondolino, nel mio Veneto si sta consolidando lo iato tra redditi delle famiglie e livelli di istruzione. I figli dei piccoli industriali con la terza media si fermano alle superiori, non sentono il bisogno di laurearsi. Si laureano invece i figli di impiegati ed insegnanti, che poi faticheranno a trovare un posto di lavoro adeguato, e comunque guadagneranno sempre meno dei primi, molto meno. L'impulso allo studio, da dove dovrebbe venire, dal cielo? È un pasticcio.

PROMOTORI. Le scuole oggi fanno promozione. Non nel senso che promuovono anche gli asini (molte lo fanno, per carità, sono moderne e assicurano il successo scolastico). Promuovono sé stesse come aziende, ovvero fanno pubblicità, investono in pubblicità. Ne ho scritto in altre Croniche: ciò che conta è la confezione, è dare un'immagine al pubblico, un'immagine di qualità (mi viene in mente un certo barbiere…). Fra non molto, temo, anche i singoli docenti dovranno promuoversi, la gara alla conquista delle clientele investirà tutti, nessuno potrà sottrarsi. Gli aspetti tecnico-burocratici da un lato e commercial-pubblicitari dall'altro saranno (sono già) l'incudine e il martello che frantumeranno il fragile guscio della poca cultura rimasta. Già adesso, temo, i professori che leggono son pochi: le ore che si aggiungono alle 18 di cattedra (che già di per sé non significano 18 ore a scuola, queste sono ben di più) son cresciute in modo esponenziale, mettici la famiglia ecc.: quando leggi? Non importa, al Sistema la lettura non interessa, tant'è che la maggior parte dei libri scolastici è orrenda, è deterrente.

Guardateli, i depliant pubblicitari, gli inserti sui giornali, i siti web delle scuole: son patinati, mostrano allievi sorridenti ai computer, classi linde e accoglienti, non mostrano i bagni. Presentano POF e carte dei servizi, piani didattici, corsi e controcorsi, metodi nuovi. "Venghino signori, venghino, guardino che qui si insegna il latino col metodo Örberg, che i ragazzi si leccano i baffi, diventano addirittura latinodipendenti, e tra loro non parlano più in italianogiovanilesemplificato ma sembrano dei Ciceroni, sembrano!" Promozione, promozione ci vuole. Anzi, vogliamo creare la figura del Promotore in ciascun istituto, che lo faccia scendere nel Mercato, urca!, e dia una sveglia a tutti quegli insegnanti pregni di ideologia statalistico-assistenziale.

PROGRAMMI. Si presentano all'inizio dell'anno scolastico come programmazione, si consegnano alla fine del medesimo come programmi svolti. In un numero imprecisabile di scuole, per molti Dirigenti e per non pochi insegnanti essi presentano carattere di feticcio. Se ne parla come di entità richiedenti sacrifici e vittime. Devono essere assolutamente svolti (sennò rimangono in una misteriosa ma senz'altro critica situazione di involgimento, che senz'altro deve essere mortifera per molti, tanto fortemente essa viene deprecata) e portati avanti, altrimenti il loro essere indietro sarebbe fomite di pestifere contagioni. Ma la situazione reale di solito non corrisponde agli auspici, perché a rispondere le materie sono sorde. Perciò tu vedi infelicissimi, disperati insegnanti che si aggirano nei corridoi delle patrie (fra poco devolute e regionali) scuole, coi volti terrei che denunciano il loro sconforto per i programmi che non hanno risposto alle attese. "Come sei (messo/a) con i programmi?" si sente chiedere frequentemente il/la docente dai colleghi. "Mah, quest'anno abbiamo avuto un secondo quadrimestre falcidiato da gite, uscite, assemblee, ponti, festività varie, ecc. ecc., sono ancora a Manzoni, e manca un mese e mezzo all'esame". "Che vuoi che sia, il commissario di Italiano sei tu…, mica rischi brutte figure!"

E così alla fin fine, dopo tanto cianciar di metodi, di catodi e di anodi, ti ritrovi alla fine dell'anno in sala insegnanti tra colleghi querimoniosamente dicenti quanto poco abbiano fatto e quanto male. Sarà il caso di ripensare: poco programma all'inizio, affinché risulti alla fine svolto. Si sfrondi, si poti, si colga l'essenziale. Meglio poco fatto bene e a fondo che molto fatto male, e dileguantesi rapidamente dalle cervici non fecondate. Il poco ben fatto, tra l'altro, veicola il metodo che vi è intimamente connesso, sempre che l'insegnante valga qualcosa, e sempre che gli allievi non siano un branco di italopitechi post-postmoderni.

21 aprile 2003 A.D.

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