CRONICA XII

Fabio Brotto

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NEGATIVO. Riflettendo sulle precedenti Croniche, mi accorgo che l'immagine che offro di me è negativa. Nel senso che nel mio discorso prevale il giudizio di condanna pronunciato su tutto ciò che si manifesta nella scuola che cambia. Dico di no a questo, dico di no a quest'altro. Dipenderà dalle mie condizioni psicologiche, dalla mia disposizione saturniana (be', Saturno è l'astro della melanconia e della filosofia, e mi sta simpatico--Leggete il bellissimo libro di Klibansky, Panofsky e Saxl, se non l'avete già letto--), o da Satana, lo spirito che nega? Si potrebbe rovesciare la cosa, e dire che bisogna dire di no al male. Rinunci a Satana e alle sue seduzioni? Rinuncio. Si potrebbe fare riferimento alla negazione determinata di Adorno. Si potrebbe sostenere che senza antitesi non ci sono sintesi. Si potrebbero chiamare in causa molte teorie e molti nomi, ma a che scopo? Resta il fatto che il sapore di queste Croniche è tra l'acido e l'amaro, con un retrogusto dolciastro.

Non sono mai stato un grande edificatore, mi manca anche il talento dell'organizzatore, godo invece nell'esaminare le costruzioni altrui, nel trovarne debolezze e falle. Sono poi convinto che ovunque, e in particolare nel mondo scolastico, vi siano molti imbecilli (gente dall'intelletto debole che crede di averlo forte), e purtroppo della specie operosa: industri formiche che fanno, fanno, organizzano, organizzano, senza sosta, senza posa, di giorno e di notte, incapaci di contemplare il bel mondo che Dio ha creato. Questo formicolio mi fa sentire inerme.

NON SAPERE. Quando scoppiano le guerre tutto si semplifica, e tutti sanno tutto, e parlano convinti di sapere. Succede anche ora, mentre infuria il conflitto iracheno. Invidio la sicurezza con cui molti colleghi si schierano, la invidio nel senso che la guardo male, non che la desideri per me. Io preferisco di gran lunga l'incertezza, i se e i ma, come si usa dire. In effetti, di questa guerra non so cosa pensare, se non che si potrà giudicare tra qualche anno, forse. I suoi effetti non mi sembrano prevedibili, e neppure il suo corso. Di quale guerra il corso è stato prevedibile? Non sono mai stato un entusiasta dell'America, e nemmeno un suo nemico. In ogni caso non mi faccio trasportare dalle emozioni, neanche da quella pacifista, che mi pare cresciuta nella confusione concettuale più totale. Che dire infatti dei numerosi canti di Bella ciao, canzone di battaglia, che può star bene sulle labbra di un sostenitore della guerriglia, ma non su quelle di chi dice di aver orrore della violenza? Come la kefia del resto, esibita da innocenti fanciulle che nulla sanno di Settembre Nero. Gli insegnanti, in questa fase, dovrebbero dimostrare di essere in grado di pensare e dialogare, almeno tra loro. Pensiero e dialogo differiscono la violenza. Gli studenti, incerti e smarriti, e preda di emozioni collettive, dovrebbero trovare nei docenti non degli indottrinatori e degli irresponsabili (gente che non risponde), ma dei punti di riferimento del non sapere. Le guerre le fanno quelli che credono di sapere (anzitutto come andranno a finire), i convinti, i persuasi. Qui pensare è sapere di non saper cosa pensare.

NO WAR. Stanno accadendo cose molto interessanti, per comprendere le quali consiglio ai miei studenti di leggere il libro di Dag Tessore La mistica della guerra (vedi DUE LIBRI 28). Gran parte del mondo occidentale rifiuta la guerra irachena in quanto guerra, mentre gran parte del mondo arabo-islamico non la rifiuta in quanto guerra, ma in quanto aggressione ad un paese arabo-islamico, aggressione cui si deve reagire con la guerra (santa) e in tutte le forme, compreso il martirio suicida-omicida. Su questo occorre riflettere, evitando prese di posizione viscerali. Bellum quaerens intellectum deve essere la nostra divisa. Potrà essere, non ne dubito, solo la divisa di pochi.

E per restare tra i pochi che pensano, mi pare degno d'attenzione quel che scrive Richard Koenigsberg in una lettera comparsa nella corrispondenza elettronica della lista girardiana che fa riferimento al Colloquium on Violence and Religion. Ci sono mille verità, mille angolature con cui guardare al conflitto. Riporto, tradotte da me, le parole di Koenigsberg.

La guerra è intimamente legata alla chimera della nazione. Non si può avere la guerra (l'uccisione giustificata) senza la chimera della bontà del proprio Paese e della sua causa. Si comincia ad uccidere per il "bene del popolo" (al fine di "salvare il popolo", come si usava dire ai vecchi tempi). Poiché nazione e popolo sono buoni, e uno sta tentando di soccorrerli, per questo uno può (tentare di) ignorare la morte "necessaria" del "nemico" (quello che minaccia la bontà del popolo e il suo modo di vita).

Il sogno dell'immortalità e il sogno della nazione sono connessi. È una chimera così possente questo "sogno della nazione" che noi non lo percepiamo come chimera. Noi siamo immersi, stretti in un legame simbiotico, nell'idea di nazione. È difficile ottenere un grado di distanza da questo sentimento di esistenza in condizione di unità con la nostra cultura nazionale.

Il senso della guerra è: se delle forze così grandi possono essere mobilitate in nome di qualcosa, allora questo qualcosa deve essere reale. La guerra è intrapresa in nome di questo "qualcosa" in cui noi vogliamo credere così profondamente.

L'uccidere e il morire conferma la realtà della nazione (la cosa amata). La guerra è la prova dell'esistenza della nazione. Ciò per cui noi ammazziamo e moriamo deve essere reale. Se l'uccidere e il morire dovessero avvenire in nome di una chimera (di qualcosa di irreale), allora che cosa dovremmo dire? Che la guerra è una sorta di illusione o follia collettiva?

È il sogno dell'unità, dell'onnipotenza simbiotica, il nostro desiderio di fonderci con il "grande altro" che "alimenta la nazione come la benzina alimenta le nostre auto". È un monumentale potlatch questa volontà di sacrificare tanto al fine di sostenere il "potere e la gloria", il sentimento che l'America esiste ancora e che noi siamo legati alla sua bontà e onnipotenza.

Tuttavia, se si è in grado di ottenere almeno un piccolo spazio di separatezza per la psiche (per conoscere che uno è altro dall'altro), si può avvertire il verificarsi di un processo psichico. Si comincia a separarsi dall'idea della propria nazione.

Ci si separa perché essere fusi con la nazione non sembra poi cosa tanto buona. La chimera dell'onnipotenza è contaminata dalla corruzione. Il sogno si volge in confusione, vergogna e tristezza.

Questa è la nascita dell'individuo o del soggetto. Non il momento in cui si "accede" al potere, ma quello in cui ci si separa da esso. Esisto ancora nel momento in cui non sono più legato all'oggetto onnipotente? Posso sopravvivere alla conoscenza della malignità dell'oggetto, del suo intento distruttivo? Come il sogno si frantuma, così la possibilità di autoconoscenza si manifesta.

 

Percepisco una qualche eco di Simone Weil in queste parole. Da cristiano, sono tormentato dal rapporto tra la guerra e il monoteismo. Mi sembra difficile negare che le guerre dei monoteismi (a cominciare da quello ebraico) abbiano fin dall'inizio assunto un carattere di violenta negazione dell'alterità dell'altro, corrispondente al loro carattere di santità. Ciò vale anche per le derivazioni atee del monoteismo, per i monoteismi mutanti come il comunismo. Se ha ragione Simone Weil nel vedere in Omero la rivelazione degli effetti sull'uomo di quel che lei chiama forza (e che potremmo chiamare violenza), effetti di totale disumanizzazione, di riduzione dell'uomo a cosa, è vero anche che nell'Iliade il divino non è schierato da una parte, e gli Achei non sono dalla parte del bene. Nelle guerre della Bibbia, invece, il nemico di Israele è il nemico dell'unico Dio. Qui sta forse la radice, nello herem biblico, delle guerre di sterminio recenti. Orrore.

Passano cortei di Cobas urlanti: assassini! assassini! (agli USA). Chi urla ad un altro "assassino" non scorge l'assassino che è dentro di lui. Come nel caso del giovane morto a Genova, mentre dava l'assalto ad un gippone dei carabinieri, con sassi e spranghe. Se avesse avuto in mano un bazooka, cosa avrebbe fatto? Chi lancia pietre contro i carri armati muove a pietà per la sua debolezza, ma non ha un animo pacifico, semplicemente non ha altre armi per combattere. Leggere Gandhi farebbe bene ai pacifisti di oggi, tra cui non mi annovero.

NESSUNO. Si parla moltissimo della guerra in corso, nei media, ma se ne parla malissimo. Sia perché i giornalisti non sono esperti di alcuna cosa in particolare, per cui parlano in modo approssimativo di tutte, sia perché le guerre in corso non possono essere conosciute, nel loro insieme, da alcuno. Anche le TV arabe, novità di questa guerra, si comportano come quelle occidentali, ovvero presentano la guerra anzitutto come spettacolo. Non me ne meraviglio affatto, perché la guerra è anche questo, uno spettacolo, venerando e terribile ma pur sempre uno spettacolo. Lo è sempre stato. La guerra in Omero, per citarlo ancora, è, in fondo, uno spettacolo per gli Dei, cui, come è noto, lo spettatore televisivo si sente assimilato. Spettacolo è il sacrificio, anche quello cattolico della messa presenta questa componente--come l'evento nudo e terribile del Golgota è trasfigurato tra ori, paramenti, incensi e canti. Guardare la guerra sullo schermo è una forma di simbolica partecipazione? Certo, nell'ambivalenza del sacro, che nella guerra si rivela in tutta la sua potenza, fascinoso e tremendo insieme.

Lo spettacolare, il sacro e il violento sono la stessa cosa. Pensiamo ai film. Quelli che definiamo spettacolari sono invariabilmente violenti. La straordinaria forza del Signore degli anelli sta qui, nella sua capacità di risucchiarti all'interno della sua virtuale violenza scatenata nelle battaglie contro gli Orchi, che tra l'altro sono il nemico ideale, spogliati di ogni umanità e tali che la loro uccisione non può dar luogo ad alcun senso di colpa. Confesso che quando la battaglia imperversava sullo schermo, mi sarei volentieri gettato in essa con la spada in pugno, preso dal furore mimetico. Io conosco e riconosco la violenza che è in me, e quindi la domino e la differisco. Ma quelli che urlano "assassini!" e bruciano le bandiere con un atto simbolico sostitutivo, sanno quello che fanno? Sanno quello che sono?

Lo spettacolo della violenza altrui alimenta sdegno e risentimento e nuova violenza, in un ciclo infinito. È contagio, contro il quale non esistono vaccini.

Educare alla pace. Belle parole, che spesso celano equivoci e grossolana ignoranza. Quale pace? Può educare alla pace chi non ha ancora fatto i conti con la violenza che è in lui, e che lui non vuole riconoscere? L'Educazione alla pace nelle attuali condizioni mi ricorda l'educazione alla salute curata da insegnanti tabagisti (e quanti ce ne sono). Bisogna studiare, studiare, studiare, invece, e cercare di comprendere la realtà dell'uomo, a partire dal riconoscimento della propria ignoranza e della propria violenza. Rifiutare slogan prefabbricati e ricette facili. Ma i libretti appena arrivati dal Ministero e che parlano di AIDS ecc. fanno cascare le braccia. Che livello! Gli studenti smarriti davanti a quei disegnetti da manga giapponesi si chiedono se il Ministro li consideri deficienti. Evidentemente sì. Nessuno li leggerà.

NEMICO. Gli Italiani sono convinti che, in quanto italiani, essi non possano avere nemici. Sono convinti di essere, in sé e per sé, buoni, pacifici, e quindi anche simpatici a tutto il resto del mondo. Tutti i popoli possono incorrere in errori del genere, in quanto ciascuna cultura tende a vedere il mondo con i suoi occhiali, e a non capire come possa accadere che gli altri non la capiscano. Ci sono queste sindromi di incomprensione, spesso il rovescio dell'autoesaltazione - si pensi al caso della Russia. In verità tendono ad essere un fenomeno universale, con caratteri specifici in ogni nazione. Ciò è connesso all'impossibilità di identificarsi senza escludere, dato che tutto ciò che è limitato ha dei confini, e i confini dividono tra il dentro e il fuori. Quel che sta fuori è l'altro, l'estraneo, in certi casi il nemico. Amare l'altro in quanto altro è la cosa più difficile del mondo ma anche la più necessaria, se si vuole superare il dilemma tra l'omologazione totale, la perdita dell'identità da un lato e la violenza conflittuale dall'altro.

Nella scuola esiste da tempo una guerra, scatenata dalle forze dell'omologazione contro tutto ciò che è pensiero indipendente, soggettivo, prassi educativa difforme dalla vulgata efficientistico-tecnotronica-metodologico-zuccovuotistica. È una guerra dello stato, purtroppo. E dalla parte dell'apparato burocratico statale sta un logos tecnico fornito dagli esperti, un logos ricco di formule, complesso e sicuro di sé, ma radicalmente falso. Come mostra Jean Giono ne L'affare Dominici (Sellerio 2002), il possesso di un vocabolario ricco può garantire la sconfitta di un avversario povero di parole, ma questo non è necessariamente il trionfo della verità. Io povero di parole non sono, ma le mie contano nulla, e mi sento inerme. La buona guerra la combatterò lo stesso, è una guerra santa.

5 aprile 2003 A.D.

 

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