Riti di uccisione

Walter Burkert

Da Homo necans, trad. F.Bertolini, Boringhieri, Torino 1981

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Attraverso la ritualizzazione il comportamento di caccia si consolidò diventando nel contempo trasmissibile; in tal modo si è mantenuto ben oltre l'età dei primi cacciatori. Ciò non si spiega soltanto sulla base della meccanica psichica di imitazione e impronta, che sta a fondamento della trasmissione dei costumi: erano indispensabili proprio questi riti per la loro particolare efficacia. Sembra chiaro che nel corso della preistoria e della storia si siano imposti solo quei gruppi che si erano consolidati attraverso la forza mortale presente nel rituale. La primissima comunità umana si era costituita per l'uccisione collettiva nella caccia; nel rituale sacrificale la società trovò in seguito la propria forma grazie alla solidarizzazione, alla cooperazione articolata e all'istituzione di un ordine incrollabile.

Come ha mostrato l'etologia, la comunità nasce dall'aggressività collettiva. Certo, anche un sorriso crea contatto, un pianto infantile tocca il cuore; però ogni società umana si è strutturata in modo che la serietà stia più in alto della cortesia e della commozione. Nel "sacro brivido" dell'entusiasmo, il residuo del rizzarsi dei capelli in segno di aggressione, si ritrova la comunità giurata, nel sentimento della forza e dell'attesa. Ciò deve scaricarsi in un "atto": l'opportunità di uccidere e di spargere sangue è offerta dal rituale sacrificale. Tanto in Israele, quanto in Grecia e in Roma, nessun accordo, nessun contratto, nessun patto viene stipulato senza sacrificio. L'oggetto dell'aggressione, che là viene "colpito" e "tagliato a pezzi", diventa, nella formulazione linguistica, addirittura identico al patto medesimo: foedus ferire, horkia pista temnein. In qualità di comunità sacrificale si costituiscono stirpi e gilde, la città vive sé stessa nella festa collettiva, si ritrovano grandi gruppi politici: gli abitanti dell' "isola di Pelope" si riuniscono a Olimpia per il sacrificio sulla tomba di Pelope, gli abitanti delle isole festeggiano a Delo, a Micale le città della Ionia sacrificano un toro a Posidone. Alla lega latina appartengono quelle città che ancora al tempo di Cicerone avevano il diritto di "esigere" la loro porzione di "carne" del sacrificio di un toro a Juppiter Latiaris. Atene esigeva dalle città della lega che portassero un fallo per la processione delle Dionisie e una vacca per le Panatenee: la potenza dello Stato si manifesta nel corteo sacrificale.

Quanto più stretto deve essere il legame, tanto più aumenta il grado di crudeltà dei riti. Chi giura deve entrare in contatto con il sangue della vittima sacrificata per il giuramento, deve persino mettere il piede sui testicoli recisi dell'animale castrato. Anche in questo caso si assaggia la carne, o per lo meno gli splanchna. Le società segrete erano regolarmente ritenute capaci di sacrifici umani nonché di cannibalismo. L'assassinio collettivo, espressione di "fedeltà", si trova, secolarizzato, nelle eterie ateniesi: il sacrilegium contenuto nel sacrum esplode qui in forma non ritualizzata.

Nel sacrificio i membri che "appartengono" a un gruppo si separano dagli esclusi: complesse strutture sociali prevedono che ai partecipanti spettino ruoli diversi nell'esecuzione del rituale, dal multiforme "inizio" attraverso l'invocazione, lo sgozzamento, lo scuoiamento e lo smembramento, sino all'arrostimento e soprattutto alla ripartizione della carne. Uno di essi presiede il sacrificio e dimostra la propria vitae necisque potestas che, benché propriamente solo una necis potestas, sembra, per contro, comprendere il potere della vita. Tutti gli altri sono compartecipi, ognuno a modo suo, secondo una successione e funzioni fissate con esattezza. Per questo, la comunità sacrificale costituisce il modello della società fondata sulla divisione del lavoro, distinta in ranghi.

L'articolazione che emerge nella festa è pertanto della massima importanza sociale e viene adeguatamente presa sul serio. Edipo, racconta l'antico poema epico della Tebaide, maledì i propri figli perché ricevette il pezzo di carne sbagliato della vittima. Armodio uccise il pisistratide Ipparco in quanto a sua sorella era stato rifiutato l'onore di fare da "portatrice del cesto" nelle feste Panatenaiche. Il motivo non ultimo per il quale i Corinzi si schierarono contro i Corciresi fu che questi "non riservavano loro, durante le adunanze festive comuni, i tradizionali privilegi rituali e non offrivano, come le altre colonie, a un cittadino di Corinto l'apertura del sacrificio"; la conseguenza fu, alla fine, la guerra del Peloponneso.

E' soprattutto durante il pranzo sacrificale che la cooperazione nel distribuire, dare e prendere è regolata dall'ordine sacro. Il fatto che il mangiare diventi una cerimonia differenzia chiaramente il comportamento umano da quello animale. E' indispensabile disinnescare l'aggressività intraspecifica, dopo che lo strumento mortale ha fatto il suo servizio; per questo si richiede un'inibizione al cibo, che viene provocata proprio attraverso quei riti che scatenano angoscia e senso di colpa. [vedi la teoria gansiana del differimento della violenza alle origini dell'umano - Generative Anthropology - nota di Fabio Brotto] La società dei cacciatori deve sostentare donne e bambini; la rinuncia diventa giustificazione: per gli altri l'uomo ha ucciso. Spesso vale la regola che chi ha ammazzato, il sacrificante stesso, non può mangiare. Ciò non si verifica solo nei sacrifici umani; anche Hermes, l'uccisore di giovenche, nell'inno omerico si vede sottoposto a questa disposizione, allo stesso modo che i Pinarii nel sacrificio dell'Ara Maxima erano esclusi dal pasto. Talora vale la regola di vendere subito la carne della vittima: l'inibizione rituale diventa un fattore economico; la cooperazione sociale diventa più attiva proprio attraverso il tabù.

Allo sconvolgimento nell'atto dell'uccisione risponde successivamente la rassicurazione; alla "colpa" segue la riparazione, alla distruzione la ricostruzione. La sua più semplice espressione è quel raccogliere le ossa, quel sollevare crani e corna di arieti o di cervidi. Viene istituito un ordine che vale proprio nel contrasto con quanto precede. Nell'esperienza dell'uccidere viene vissuta la sacralità della vita, che attraverso la morte trova il proprio nutrimento e con ciò la propria perpetuazione. Questo paradosso viene fissato, recitato e generalizzato nel rituale: ciò che deve sussistere e avere validità, deve passare prima attraverso il sacrificio, che spalanca il baratro del nulla e nuovamente lo chiude.

Diffusissimi sono pertanto i sacrifici di fondazione: una casa, un ponte, un argine dureranno solo se sotto giace una vita distrutta. Una tra le più dettagliate descrizioni latine di sacrifici illustra la posa di un cippo di confine: nella fossa viene sgozzata e bruciata una vittima, insieme con "offerte" di incenso, frutta, miele e vino. Quindi, sui resti ancora caldi, viene posta la pietra presso la quale, d'ora innanzi, i vicini si incontreranno per ripetere il sacrificio al dio Terminus. Anche un altare, una statua del dio vengono "innalzati" sulla vittima, nell'ambito del rituale. Nemmeno la nascita della musica è pensabile senza l'uccisione sacrificale; la reale utilizzazione del flauto di ossa, della lira di tartaruga, del timpano rivestito con la pelle del toro si impone con l'idea che la sconvolgente forza della musica deriva dalla trasformazione e dal superamento della morte. Una persona uccisa diventa facilmente un eroe o addirittura un dio, proprio in virtù della sua fine orripilante [cfr. Girard]; in ogni caso l'apoteosi presuppone la morte.

Il sacrificio produce trasformazione, nel passaggio viene raggiunto un nuovo livello attraverso un "atto" che non può più essere revocato. Ogni volta che viene consapevolmente e irrevocabilmente compiuto un nuovo passo, questo è connesso con sacrifici. Così, all'attraversamento di confini e fiumi appartengono i diabatēria, all'apertura dell'assemblea popolare la strana "purificazione"; così, per entrare in una nuova classe di età o in una società chiusa, occorre il prezzo di un sacrificio. Questo è preceduto da astensioni e se nuove barriere vengono poi erette come riparazione, queste possono diventare limitazioni che determinano la vita. Il sacrificio diventa un'iniziazione, alla quale segue un bios saldamente segnato; chi ha superato l'inaudito è poi "sgravato" e "sacralizzato" a un tempo, cosa che in greco è espressa col solo termine di hosiōtheis. Per questo il bios è addirittura complementare al sacrificio di iniziazione: all'omofagia segue il vegetarismo. L'uccisione giustifica e convalida la vita, porta a livello di coscienza il nuovo ordine e lo valorizza.

Terrore, beatitudine e riconoscimento dell'autorità assoluta, mysterium tremendum, fascinans e augustum: con questi concetti la scienza delle religioni, sulle orme di Rudolf Otto, cerca di definire l'esperienza del sacro. Questi elementi sono tra loro connessi nel modo più avvincente ed efficace nel rituale sacrificale: lo shock del colpo mortale e del sangue che scorre, il piacere carnale e spirituale del festoso pranzo, il rigido ordine che circonda il tutto: questi sono i sacra tout court, ta hiera. Soprattutto i giovani debbono venire continuamente a contatto con questo "sacro", per acquisire la tradizione dei padri.

Se la persistente continuità del rituale sacrificale è spiegabile sulla base di queste sue funzioni sociali, ciò non esclude affatto trasformazioni. I riti sono moduli comportamentali trasmessi che servono alla comunicazione; per questo è necessaria la possibilità della sostituzione dei mezzi espressivi, la simbolizzazione, a partire dal pallone bianco o dal velo che un astuto insetto maschio offre alla femmina al posto di un dono del mattino commestibile. Ogni comunicazione è simbolica nella misura in cui non dà in mano direttamente un frammento di realtà, ma offre un segno, che viene inteso dal destinatario a ciò preparato; l'oggetto che serve da segno è scambiabile. Il complesso dei segni può essere molto ridotto se l'accordo tra "mittente" e "destinatario" è sufficientemente stretto; al contrario, esso viene aumentato fino all'esagerazione se si tratta di superare comunicazioni concorrenziali. I segni sostitutivi così utilizzati - oggetti naturali o creati artificialmente, immagini, voci e parole - sono simboli in senso pregnante. Essi non sono scelti arbitrariamente, ma sono emersi dalla continuità della tradizione; non sono né indipendenti né ovvi, ma legati all'ordine al cui interno essi operano. La loro ricchezza di significati sta nel complesso effetto che essi scatenano nella cooperazione in un certo senso programmata.

Nei rituali che hanno per fondamento degli atti aggressivi, sono scambiabili tanto il fine quanto il mezzo dell'aggressività. Già un mammifero, nel rituale minatorio che introduce e nel contempo allontana la lotta, può strappare ciuffi d'erba o lacerare cortecce d'albero; presso le oche selvatiche, l'avversario al quale è indirizzato lo starnazzo di trionfo è soltanto immaginario. Così, durante il rituale umano il gesto dell'aggressione può prendere il sopravvento al punto che l'oggetto perde ogni importanza: la forma più selvaggia di annientamento, il fare a brandelli (sparagmos), può espletarsi su di una pianta di edera; al posto della letale clava si brandisce il flessibile e innocuo nartece. In tal modo nel gioco inoffensivo le forze spirituali possono scaricarsi e portare a livello di coscienza l'ordine sociale mediante la drammatizzazione.

Tuttavia, il carattere di teatralità del rito diventa qui così evidente, che la sua funzione vitale è minacciata; in un gruppo che reca l'impronta dell'aggressività si attivano forze, che pongono in discussione l'accettazione dei contenuti della tradizione, specialmente da parte della nuova generazione: la sua riluttanza blocca l'istinto imitativo. Pertanto, il rituale umano all'interno della sua teatralità deve essere sorretto da una serietà costrittiva, e ciò significa continua regressione dalla simbologia alla realtà. Il rito umano, non congenito, ma acquisito, può svolgere in modo credibile la propria funzione di comunicazione solo se ha a che fare con una pragmatica il cui carattere di realtà è fuori discussione.

Nel rituale di caccia l'aggressività umana intraspecifica era stata diretta sull'animale preda, che venne pertanto elevato a dignità di persona, a consanguineo, persino a "padre", diventando il destinatario della "commedia dell'innocenza". Tuttavia, vista la necessità dell'alimentazione carnea, la dura serietà della realtà era fuori discussione. Questa situazione cambiò col più importante passo compiuto dall'uomo nel dominio economico del mondo, quella "rivoluzione neolitica", che, diecimila anni fa, portò all'invenzione dell'agricoltura. Da allora la caccia non fu più indispensabile per principio; è significativo come sia rimasta ancora nelle civiltà superiori come rituale status symbol: il faraone si fa festeggiare come cacciatore e così fanno i suoi compagni di rango a Babilonia e Ninive. I re persiani tenevano riserve per battute di caccia, Alessandro ne seguì le orme. E' chiaro che oramai non si trattava più di guadagnarsi un pezzo d'arrosto, ma di dare semplicemente una dimostrazione del potere di uccisione del sovrano. La caccia più prestigiosa divenne pertanto quella agli animali predatori; in tal modo rimase allo sport la sua pragmatica serietà. Eracle, l'antico agitatore di clava, è ora più popolare come uccisore del leone che non come domatore del toro.

Una fase di transizione è documentata a Catal Hüyük: nella città dei contadini, dove anche le capre e le pecore sono da tempo addomesticate, simbolo religioso importantissimo è la coppia di corna del toro selvatico. La caccia rituale della lega dei leopardi è testimoniata con avvincente chiarezza nei dipinti parietali. Anche la graduale estinzione del bufalo può essere seguita a Catal Hüyük, non però il successivo passo decisivo: al posto dell'animale selvatico che sta scomparendo subentra, come vittima, l'animale domestico. In tal modo i legami del rituale tradizionale rimangono intatti. Però l'animale deve essere sottratto alla quotidianità familiare, deve diventare "sacro": di qui l'ornamentazione e le processioni, e talvolta la sua liberazione e la nuova cattura; di qui i molti livelli dell' "inizio", l'incenso, la musica.

L"'opera", che ormai può essere compiuta senza pericoli e quasi senza fatica, viene messa in rilievo anche attraverso la parola, nell'invocazione ai "più forti" e nel mito che narra di loro. La realtà della morte, del sangue che scorre, è immediatamente presente, viene vissuta in maniera forse più intensa di prima sull'animale domestico, sul familiare compagno di casa, né meno forte è il piacere per il vecchio cibo di caccia nel banchetto sacrificale. C'è da aggiungere che l'animale domestico è proprietà che deve essere offerta; in tal modo una nuova ambivalenza di rinuncia e piacere viene ad aggiungersi, nel sacrificio, a quelle antiche e fondamentali di morte e vita. Tanto più in questa situazione di crisi viene presupposto e convalidato un ordine sacro. In ogni caso, con l'integrazione del sacrificio nella civiltà contadina si è realizzata una struttura socio-religiosa molto stabile, durata per vari millenni.

Non meno significativa è la simbolizzazione susseguente, che ha accolto nella tematica del rituale di uccisione anche le nuove fonti di alimentazione della cultura del suolo, l'orzo, il frumento, il frutto della vite. Lo schema rituale era così forte e rigido, che un banchetto festoso senza il brivido della morte che lo precedesse non sarebbe stato una festa. Fidatezza, capacità di resistenza, programmazione preventiva, non sono certo meno importanti per il contadino che per il cacciatore. In particolare, togliersi dalla bocca il grano da seme e gettarlo nel suolo confidando nella semplice speranza, non è un facile gesto di autocontrollo. Al di là della momentanea ricerca di profitto del singolo, poterono inserirsi qui le tradizioni consacrate del rituale di caccia, che resero operante il vecchio ordine sul nuovo oggetto: astinenza e rinuncia in vista del successo finale, che si deve tramutare subito in un nuovo ordine. Così il raccolto viene eseguito come festa di caccia e di sacrificio. Il raccogliere e il conservare nel luogo sacro acquistano ora un nuovo carattere di realtà. Nel granaio seminterrato, la misteriosa casa della ricchezza, è anzitutto custodito, intoccabile, il grano da seme. Pertanto l'aggressività deve procurarsi oggetti sostitutivi; essa utilizza, per armi, gli arnesi del contadino: tanto l'aratro quanto la falce e il pestello dividono, tagliano a pezzi, lacerano. Così, il taglio delle spighe è una simbolica sostituzione della castrazione; la molitura del grano, la pigiatura dell'uva, sostituiscono la lacerazione di un animale preda o di una vittima sacrificale; aratura e semina appaiono sacrifici di rinuncia preparatori.

Come dalla morte nasca l'ordine della vita, era dimostrato già nel rituale di caccia. La vittoria della vita era molto più immediatamente evidente nell'agricoltura: la vite potata produce frutti ben più abbondanti, il seme sotterrato germoglia nuovamente. Anche i legami del rituale sacrificale si mantengono su questo livello: mescere vino (spondai) suggella il contratto, il matrimonio è celebrato con la spartizione di una focaccia o di pane; come prima, il mangiare deve essere preceduto dal tagliare e dallo spezzare, come lo sgozzamento precede il pasto di carne. Certo, la simbolizzazione potrebbe nuovamente sublimarsi nel non impegnativo, se anche qui non vi fosse una sterzata verso una realtà terrificante.

Ciò è prodotto in primo luogo dal mito: i più sinistri racconti di smembramento di esseri viventi, di pasto cannibalico, accompagnano le operazioni della "vita addomesticata". Il mito non è però sufficiente; vittime insanguinate debbono cadere per la festa del raccolto, come per la sua preparazione, vittime sulle quali si scarica catarticamente la ferocia solo esteriormente "addomesticata". Presso i Greci si tratta, per quanto ne sappiamo, di vittime animali. Proprio nelle condizioni climaticamente più favorevoli, presso i piantatori dei tropici, la regressione portò a un regolare sacrificio umano, al cannibalismo cultuale; solo in questo modo, si affermava, il seme può crescere, il raccolto maturare: solo in quanto la non estinta violenza dell'uomo trova la propria forma rituale, la "vita addomesticata" può sopravvivere.

Così l'aggressività si scarica nuovamente sull'uomo. Se l'associazione maschile, che si sovrapponeva alla struttura familiare, aveva perso con la caccia la sua funzione esterna, tornò a costituirsi proprio nelle società di piantatori come secret society, come lega mascherata. Centro è la segreta festa sacrificale, e nella misura in cui l'aggressività non vi trova il proprio soddisfacimento, si cerca un obiettivo all'interno della società. Così viene esagerata la contrapposizione dei sessi, lega maschile contro potere femminile, specialmente se il carico maggiore della nuova alimentazione viene accollato alle donne; non meno drammaticamente viene rappresentato il conflitto di generazione nei rituali di iniziazione. Privata dell'oggetto esterno della caccia, la società segreta può fare dell'iniziando stesso la vittima: su di lui si concentra l'aggressività del gruppo, ed egli viene ucciso, sia pure, beninteso, solo in maniera simbolica. Alla fine viene però sostituita una vittima animale; tuttavia il reale spargimento di sangue e forme particolari di sevizia garantiscono il carattere di serietà del rito. La crudeltà, il "male" qui operante, adempiono tuttavia nuovamente la loro funzione di mantenere una struttura sociale oltre il cambio di generazione. Anche qui la vita nasce dalla minaccia di morte, anzi il singolo sperimenta come al proprio pericolo di morte segua la resurrezione, la rinascita.

Anche questo è comunque, in certo qual modo, ancora gioco, teatralità. Col progresso della coscienza le civiltà superiori esigono una serietà assoluta, il sacrificio umano effettivamente compiuto. La massima espressione del potere statale fu pertanto la pena di morte; la notevole corrispondenza tra l'esecuzione capitale del criminale come festa pubblica e un rituale sacrificale è stata più volte descritta. Nei tempi antichi la pena di morte non minaccia tanto l'assassino profano quanto chi infrange comandamenti religiosi, calpesta un recinto "inaccessibile", entra, non consacrato, nella casa dei misteri o depone un ramoscello su un falso altare. Il tabù diviene addirittura il pretesto per trovare vittime allo sfogo della sacra volontà di distruzione.

Ben più seria è l'altra forma, quella di dirigere l'aggressività verso l'esterno e di integrare grandi masse umane nello scatenamento di una collettiva furia bellicosa: la guerra. La storia, da quando ci diventa nota, è una storia di conquiste e di guerre. A partire da Tucidide, la storiografia cerca di comprendere questo fatto nella sua necessità e di renderlo, ove possibile, prevedibile; oggi comunque abbiamo più chiaramente di prima dinanzi agli occhi il carattere irrazionale e coatto di questi meccanismi comportamentali. La guerra è_rituale,_autorappresentazione e autoconvalida della società maschile che si stabilizza nell'incontro con la morte, in una ostinata disponibilità alla morte e nell'ebbrezza della sopravvivenza. Questo è così profondamente radicato nello sviluppo delle forme di potere e dei valori della società, che anche oggi, dopo che la meccanizzazione della guerra a distanza ne ha svelato l'assurdità e al posto della solidarietà tende a produrre l'effetto contrario, una sua estinzione appare ancora estremamente remota.

Per il mondo antico, caccia, sacrificio e guerra sono "simbolicamente" interscambiabili: il faraone è cacciatore, sacrificante o guerriero, cosi come Eracle. Sui rilievi funerari il giovane greco appare come cacciatore, guerriero o atleta. Gli accenti differiscono certo a seconda della realtà sociale: il coltivatore sembra vivere di preferenza nel rito sacrificale; gli allevatori nomadi, che malvolentieri decimano con lo sgozzamento la loro superba proprietà, diventano guerrieri conquistatori.

Presso i Greci il rituale sacrificale prepara e conclude una spedizione militare. Viene compiuto un sacrificio preparatorio alla partenza, con ornamentazione e incoronazione prima della battaglia come se si trattasse di una festa. Sacrifici di macellazione introducono l'azione sanguinaria, che in Omero è ergon tout court. Sul campo di battaglia viene poi eretto un segno, il tropaion, come testimonianza sacra e perenne; segue la solenne sepoltura dei morti, che nemmeno il vincitore può negare al vinto. Le esequie sono quasi importanti quanto la battaglia stessa, nel loro effetto addirittura più durevoli: esse fondano il "monumento" che resta. Sembra quasi che il fine della guerra sia quello di ottenere eroi morti, come gli Aztechi conducevano le loro guerre per procurarsi prigionieri per i sacrifici umani. Rimane il monumento eretto, consacrato, che quasi incarna l'obbligo della generazione futura a dare il proprio contributo alla morte. La guerra, necessaria come rito e però nel contempo frenata, ha infatti questa funzione precipua: l'integrazione della gioventù nella comunità "patriottica". Il senatus stabilisce che la juventus deve combattere. I Greci stipulavano le loro tregue (spondai) normalmente per un periodo non superiore ai trent'anni: ogni generazione ha il diritto e il dovere della propria guerra.