Il bando e il lupo

Da Homo sacer, di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino 1995 

 

. "Tutto il carattere del sacer esse mostra che esso non è nato sul suolo di un ordine giuridico costituito, ma risale invece fino al periodo della vita pre-sociale. Esso è un frammento della vita primitiva dei popoli indoeuropei... L'antichità germanica e scandinava ci offrono al di là di ogni dubbio un fratello dell'homo sacer nel bandito e nel fuorilegge (wargus, vargr, il lupo e, in senso religioso, il lupo sacro, vargr y veum)... Ciò che si considera come una impossibilità per l'antichità romana--l'uccisione del proscritto al di fuori di un giudizio e del diritto--è stata una realtà incontestabile nell'antichità germanica " [Jhering, L'esprit du droit romain, trad.fr. Parigi 1886, vol.I, p. 282].

Jhering è stato il primo ad accostare con queste parole la figura dell'homo sacer al wargus, l'uomo-lupo, e al friedlos, il " senza pace " dell'antico diritto germanico. Egli poneva così la sacratio sullo sfondo della dottrina della Friedlosigkeit, elaborata verso la metà del XIX secolo dal germanista Wilda, secondo il quale l'antico diritto germanico si fondava sul concetto di pace (Fried) e sulla corrispondente esclusione dalla comunità del malfattore, che diventava perciò friedlos, senza pace, e, come tale, poteva essere ucciso da chiunque senza commettere omicidio. Anche il bando medievale presenta caratteri analoghi: il bandito poteva essere ucciso (bannire idem est quod dicere quilibet possit eum offendere: Cavalca [Il bando nella prassi e nella dottrina medievale, Milano 1978, p.42] o era addirittura considerato già morto (exbannitus ad mortem de sua civitate debet haberi pro mortuo: ibid., p.50). Fonti germaniche e anglosassoni sottolineano questa condizione limite del bandito definendolo uomo-lupo (wargus, werwolf lat. garulphus, da cui il francese loup garou, lupo mannaro): così la legge salica e la legge ripuaria usano la formula wargus sit, hoc est expulsus in un senso che ricorda il sacer esto che sanciva l'uccidibilità dell'uomo sacro e le leggi di Edoardo il Confessore (1130-35) definiscono il bandito wulfesheud (letteralmente: testa di lupo) e lo assimilano a un lupo mannaro (lupinum enim gerit caput a die utlagationis suae, quod ab anglis wulfesheud vocatur). Quello che doveva restare nell'inconscio collettivo come un ibrido mostro tra umano e ferino, diviso tra la selva e la città--il lupo mannaro--è, dunque, in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunità. Che egli sia definito uomo-lupo e non semplicemente lupo (l'espressione caput lupinum ha la forma di uno statuto giuridico) è qui decisivo. La vita del bandito--come quella dell'uomo sacro--non è un pezzo di natura ferma senz'alcuna relazione col diritto e con la città; è, invece, una soglia di indifferenza e di passaggio fra l'animale e l'uomo, la physis e il nomos, l'esclusione e l'inclusione: loup garou, lupo mannaro, appunto, né uomo né belva, che abita paradossalmente in entrambi i mondi senza appartenere a nessuno.

È solo in questa luce che il mitologema hobbesiano dello stato di natura acquista il suo senso proprio. Come abbiamo visto che lo stato di natura non è un'epoca reale, cronologicamente anteriore alla fondazione della Città, ma un principio interno a questa, che appare nel momento in cui si considera la Città tanquam dissoluta (dunque, qualcosa come uno stato di eccezione), cosi, quando Hobbes fonda la sovranità attraverso il rimando all'homo hominis lupus, nel lupo occorre saper intendere un'eco del wargus e del caput lupinum delle leggi di Edoardo il confessore: non semplicemente fera bestia e vita naturale, ma piuttosto zona di indistinzione fra l'umano e il ferino, lupo mannaro, uomo che si trasforma in lupo e lupo che diventa uomo: cioè bandito, homo sacer. Lo stato di natura hobbesiano non è una condizione pregiuridica affatto indifferente al diritto della città, ma l'eccezione e la soglia che lo costituisce e lo abita; esso non è tanto una guerra di tutti contro tutti, quanto, più esattamente, una condizione in cui ciascuno è per altro nuda vita e homo sacer, ciascuno è, cioè, wargus, gerit caput lupinum. E questa lupificazione dell'uomo e ominizzazione del lupo è possibile in ogni istante nello stato di eccezione, nella dissolutio civitatis. Solo questa soglia, che non è né la semplice vita naturale né la vita sociale, ma la nuda vita o la vita sacra, è il presupposto sempre presente e operante della sovranità.

Contrariamente a quanto noi moderni siamo abituati a rappresentarci come spazio della politica in termini di diritti del cittadino, di libera volontà e di contratto sociale, dal punto di vista della sovranità autenticamente politica è solo la nuda vita. Per questo, in Hobbes, il fondamento del potere sovrano non va cercato nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualunque cosa rispetto a chiunque, che si presenta ora come diritto di punire. "Questo è il fondamento--scrive Hobbes--di quel diritto di punire che è esercitato in ogni stato, poiché i sudditi non hanno dato questo diritto al sovrano, ma solo, nell'abbandonare i propri, gli han dato il potere di usare il suo nel modo che egli credesse opportuno per la preservazione di tutti; sicché quel diritto non fu dato, ma lasciato a lui, e a lui solo, e--escludendo i limiti fissati dalla legge naturale--in un modo così completo, come nel puro stato di natura e di guerra di ognuno contro il proprio vicino" [Hobbes, Leviathan, a cura di R. Tuck, Cambridge 1991, p.214].

A questo statuto particolare dello jus puniendi, che si configura come una sopravvivenza dello stato di natura nel cuore stesso dello stato, corrisponde nei sudditi la facoltà non già di disobbedire, ma di resistere alla violenza esercitata sulla persona propria, "perché nessun uomo si suppone sia obbligato per patto a non resistere alla violenza, e, per conseguenza, non può supporsi che egli dia ad altri un diritto di mettere violentemente le mani sulla sua persona " [ibid]. La violenza sovrana non è, in verità, fondata su un patto, ma sull'inclusione esclusiva della nuda vita nello stato. E, come il referente primo e immediato del potere sovrano è, in questo senso, quella vita uccidibile e insacrificabile che ha nell'homo sacer il suo paradigma, cosi, nella persona del sovrano, il lupo mannaro, l'uomo lupo dell'uomo, abita stabilmente nella città.

 

Nel Bisclavret, uno dei più bei lais di Maria di Francia, la particolare natura del lupo mannaro come soglia di passaggio fra natura e politica, mondo ferino e mondo umano, e, insieme, il suo stretto legame col sovrano, sono esposti con straordinaria vivezza. Il lai racconta di un barone, che è in relazione di particolare vicinanza al suo re (de sun seinur esteit privez, v. 19), ma che ogni settimana, dopo aver nascosto le sue vesti sotto una pietra, si trasforma per tre giorni in lupo mannaro (bisclavret) e vive nel bosco di preda e di rapina (al plus espés de la gaudine / s' i vif de preie e de ravine). La moglie, che sospetta qualcosa, riesce a strappargli la confessione di questa vita segreta e lo convince a rivelarle dove nasconde le vesti, benché egli sappia che, se le perdesse o fosse sorpreso nell'atto di indossarle, resterebbe lupo per sempre (kar si jes eusse perduz / e de ceo feusse aparceur / bisclavret sereie a tuz jours). Servendosi di un complice, che diverrà così il suo amante, la donna sottrae le vesti dal nascondiglio e il barone resta per sempre lupo mannaro.

Essenziale è qui il particolare, già attestato in Plinio nella leggenda di Anto (Nat. Hist., VIII), del carattere temporaneo della metamorfosi legato alla possibilità di deporre e recuperare non visto le vesti umane. La trasformazione in lupo mannaro corrisponde perfettamente allo stato di eccezione, per tutta la durata del quale (necessariamente limitata) la città è sciolta e gli uomini entrano in una zona di indistinzione con le belve. Si ritrova, inoltre, nella storia la necessità di particolari formalità che segnano l'ingresso nella--o l'uscita dalla--zona di indifferenza fra il ferino e l'umano (che corrisponde alla chiara proclamazione dello stato di eccezione, formalmente distinto dalla norma). Anche nel folklore contemporaneo questa necessità è attestata nei tre colpi che il lupo mannaro, che sta ridiventando uomo, deve battere all'uscio di casa prima che gli sia aperto. "Quando battono all'uscio la prima volta, la moglie non deve aprire. Se aprisse, vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all'uscio per la terza volta si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l'uomo di prima"[C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Torino 1946, pp. 104-5].

Anche la particolare prossimità fra lupo mannaro e sovrano si ritrova ulteriormente nella storia. Un giorno (cosi narra il lai) il re va a caccia nella foresta dove vive Bisclavret e i cani sguinzagliati scovano subito l'uomo-lupo. Ma appena Bisclavret vede il sovrano, corre verso di lui e si afferra alla sua staffa, lambendogli la gamba e i piedi come se implorasse pietà. Il re, meravigliato per l'umanità della belva ("questa fiera ha senno e intelligenza / ... Darò alla bestia la mia pace / e per oggi non caccerò più"), la porta a vivere a corte con sé, dove diventano inseparabili. Segue l'immancabile incontro con l'ex moglie e la punizione della donna. Ma importante è che, alla fine, il ridiventar uomo di Bisclavret ha luogo sul letto stesso del sovrano.

La prossimità fra tiranno e uomo-lupo si ritrova anche nella Repubblica platonica (565d), dove la trasformazione del protettore in tiranno è accostata al mito arcadico di Zeus liceo: "Qual è la causa della trasformazione del protettore in tiranno? Non avviene quando egli comincia a fare quel che si racconta nel mito del tempio di Zeus liceo in Arcadia?... Quando si sono gustate viscere umane, tagliate in pezzi insieme a quelle delle altre vittime, si è fatalmente tramutati in lupo... Cosi quando il capo del demos, vedendo la moltitudine devota ai suoi ordini, non sa astenersi dal sangue degli uomini della sua tribù... non sarà necessario che o sia ucciso dai suoi nemici, o divenga tiranno e si trasformi da uomo in lupo?"

È venuto, perciò, il momento di rileggere da capo tutto il mito di fondazione della città moderna, da Hobbes a Rousseau. Lo stato di natura è, in verità, uno stato di eccezione, in cui la città appare per un istante (che è, insieme, intervallo cronologico e attimo intemporale) tanquam dissoluta. La fondazione non è, cioè, un evento compiuto una volta per tutte in illo tempore, ma è continuamente operante nello stato civile nella forma della decisione sovrana. Questa, d'altra parte, si riferisce immediatamente alla vita (e non alla libera volontà) dei cittadini, che appare, cosi, come l'elemento politico originario, lo Urphänomenon della politica: ma questa vita non è semplicemente la vita naturale riproduttiva, la zoē dei greci, né il bios, una forma di vita qualificata; è, piuttosto, la nuda vita dell'homo sacer e del wargus, zona di indifferenza e di transito continuo tra l'uomo e la belva, la natura e la cultura.

Per questo la tesi, enunciata sul piano logico-formale alla fine della prima parte, secondo cui il rapporto giuridico-politico originario è il bando, non è soltanto una tesi sulla struttura formale della sovranità, ma ha carattere sostanziale, perché ciò che il bando tiene insieme sono appunto la nuda vita e il potere sovrano. Occorre prendere congedo senza riserve da tutte le rappresentazioni dell'atto politico originario come un contratto o una convenzione, che segnerebbe in modo puntuale e definito il passaggio dalla natura allo Stato. Vi è qui, invece, una ben più complessa zona di indiscernibilità fra nomos e physis, in cui il legame statuale, avendo la forma del bando, è già sempre anche non-statualità e pseudonatura, e la natura si presenta già sempre come nomos e stato di eccezione. Questo fraintendimento del mitologema hobbesiano in termini di contratto invece che di bando ha condannato la democrazia all'impotenza ogni volta che si trattava di affrontare il problema del potere sovrano e, insieme, l'ha resa costitutivamente incapace di pensare veramente nella modernità una politica non-statuale.

La relazione di abbandono è, infatti, cosi ambigua, che nulla è più difficile che sciogliersi da essa. Il bando è essenzialmente il potere di rimettere qualcosa a se stesso, cioè il potere di mantenersi in relazione con un irrelato presupposto. Ciò che è stato posto in bando è rimesso alla propria separatezza e, insieme, consegnato alla mercé di chi l'abbandona, insieme escluso e incluso, dimesso e, nello stesso tempo, catturato. L'annosa discussione, nella storiografia giuridica, fra coloro che concepiscono l'esilio come una pena e quelli che lo considerano invece come un diritto e un rifugio (già alla fine della repubblica Cicerone pensa l'esilio in contrapposizione alla pena: exilium enim non supplicium est, sed perfugium portusque supplicii, Pro Caec., 34) ha la sua radice in questa ambiguità del bando sovrano. Tanto in Grecia che a Roma, le testimonianze più antiche mostrano che più originale dell'opposizione fra diritto e pena è la condizione, "non qualificabile né come esercizio di un diritto né come situazione penale" [G.Crifò, L'esclusione dalla città, Perugia 1985, p. 11], di chi va in esilio in conseguenza di un omicidio commesso o di chi perde la cittadinanza perché diventa cittadino di una civitas foederata che gode dello ius exilii.

Questa zona d'indifferenza, in cui la vita dell'esule o dell'aqua et igni interdictus confina con quella dell'homo sacer, uccidibile e insacrificabile, segna la relazione politica originaria, più originale dell'opposizione schmittiana fra amico e nemico, fra concittadino e straniero. L'estrarietà di colui che è nel bando sovrano è più intima e iniziale dell'estraneità dello straniero (se è lecito svolgere in questo modo l'opposizione che Festo stabilisce tra extrarius, cioè qui extra focum sacramentum iusque sit, e extraneus, cioè ex altera terra, quasi exterraneus).

Diventa cosi comprensibile l'ambiguità semantica già notata per cui "in bando, a bandono " significano in origine in italiano tanto "alla mercé di..." che "a proprio talento, liberamente" (come nell'espressione "correre a bandono"), e bandito vale tanto "escluso, messo al bando" che "aperto a tutti, libero" (come in "mensa bandita ", "a redina bandita"). Il bando è propriamente la forza, insieme attrattiva e repulsiva, che lega i due poli dell'eccezione sovrana: la nuda vita e il potere, l'homo sacer e il sovrano. Solo per questo esso può significare tanto l'insegna della sovranità (Bandum, quod postea appellatus fuit Standardum, Guntfanonum, italice Confalone [L.A. Muratori, Antiquitates italicae Medii Aevi, vol.II, p. 442, Milano 1739], che l'espulsione dalla comunità.

E' questa struttura di bando che dobbiamo imparare a riconoscere nelle relazioni politiche e negli spazi pubblici in cui ancora viviamo. Più intima di ogni interiorita e più esterna di ogni estraneità è, nella città, la bandita della vita sacra. Essa è il nomos sovrano che condiziona ogni altra norma, la spazializzazione originaria che rende possibile e governa ogni localizzazione e ogni territorializzazione. E se, nella modernità, la vita si colloca sempre più chiaramente al centro della politica statuale (divenuta, nei termini di Foucault, biopolitica), se, nel nostro tempo, in un senso particolare ma realissimo, tutti i cittadini si presentano virtualmente come homines sacri, ciò è possibile solo perché la relazione di bando costituiva fin dall'origine la struttura propria del potere sovrano.