DUE LIBRI, UNA PAGINA (114)

Letture di Fabio Brotto

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Ne L’uomo e il divino di  María Zambrano (1955, trad. it. di G. Ferraro, Edizioni Lavoro 2008) si trovano molti passi che presentano una dimensione antropologica per me estremamente interessante, e che sembrano in qualche modo precorrere sviluppi a me cari.

è noto quanto facilmente l’attività persecutoria di un uomo verso un dio si trasformi nella più fervente adorazione. In quanto la relazione iniziale, primaria, dell’uomo con il divino non avviene nella ragione, ma nel delirio. La ragione incanalerà il delirio in amore. (p. 24)

Perché creare gli dèi, quando ancora non esistono? La loro creazione deve essere avvenuta per qualche motivo inevitabile. È questo, senza dubbio, l’aspetto primario, originale della tragedia che è vivere umanamente. Poiché, prima della lotta con un altro uomo, e al di là di questa lotta, appare la lotta con quelli che in seguito, dopo un lungo e faticoso travaglio, si chiameranno dèi. (ibidem)

Forse non sarà necessario affermare che il delirio di persecuzione obbliga a perseguitare, che chi lo subisce non sa, non può discernere se perseguita o è perseguitato. (p. 25)

Il delirio di cui scrive la Zambrano è delirio di persecuzione. E afferma: In principio era il delirio (p. 27)

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È un romanzo-saggio Tutto scorre di Vasilij Grossman (1963, trad. it. di G. Venturi, Adelphi 1987). La storia di un anziano prigioniero politico che alla morte di Stalin torna alla vita civile dopo 27 anni di gulag serve a rivelare la natura dello stato sovietico e la condizione della Russia, sempre priva di ciò che per gli esseri umani è la cosa più importante, la libertà. Sono poco più di duecento pagine, ma di che densità e problematicità! Bellissimo il ritratto delle molte facce di Lenin, tragica la descrizione della persecuzione dei contadini e della morte per fame imposta agli Ucraini. Il tutto sospeso tra il ricordo infantile delle terre del sud dove il protagonista ragazzo, vagando tra boschi e radure, scorgeva le tracce lasciate dalla popolazione che abitava quei luoghi un secolo prima, i Circassi annientati dalla colonizzazione russa dell’Ottocento, e la contemplazione dei luoghi ove si è abbattuto il furore dello Stato comunista, dove non è rimasto niente.

Tutto passa, il senso del titolo è quello di un tragico divenire, ove nessuno dei colpevoli di crimini orrendi è veramente inchiodato alle proprie tremende responsabilità per le inumane violenze, per la distruzione colpevole nessuno è chiamato a pagare. Non c’è una compensazione: il protagonista che infine ritrova anche la casa della sua infanzia ridotta ad un cumulo di macerie, rimane però intimamente libero, è rimasto un essere umano.

E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. Quella morte venne a intrufolarsi nel gigantesco sistema di entusiasmo meccanizzato, d’ira e d’amore popolare, stabiliti su ordine del comitato di rione.
Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori. (p. 33)

È chiaro che l’essenza divina, infallibile, dello Stato immortale non solo opprimeva l’uomo, ma lo difendeva anche, lo consolava della sua debolezza, ne scusava la nullità; lo Stato assumeva sulle sue ferree spalle tutto il peso della responsabilità, liberava gli uomini dalla chimera della coscienza. (p. 36)

Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e della Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli… Una sola cosa la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà. (p.59)

 

30 luglio 2009

 

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