Scendo. Buon proseguimento
Elisabetta Liguori
elisabetta.liguori-lisi@poste.it
Mentre
leggi non lo diresti affatto che Cesarina Vighy sia morta.
In
questo suo ultimo epistolario “ Scendo. Buon proseguimento” edito da Fazi, sospeso in una sorta di terzo luogo, tra vita e morte,
la Vighy
strappa due anni di sano pensiero al suo nemico per consegnarli ai suoi
lettori. Il suo nemico è una malattia “ cronica e degenerativa” detta SLA
(Sclerosi Laterale Amiotrofica), per
molti sconosciuta, per altri inspiegabile, balzata agli onori della
cronaca grazie ad alcuni casi eclatanti. Un morbo oscuro (un sasso lanciato alla
cieca da un cavalcavia come lo descrive l’autrice) capace di annientare
progressivamente i moto neuroni presenti nei muscoli umani
e quindi ogni funzione motoria (camminare, respirare, deglutire) lasciando
intatte quelle intellettive.
Che
sia la letteratura a rivelare questo terzo luogo
addolora e rallegra allo stesso tempo. La letteratura come poche altre scienze sa adattarsi. Non soffre di rigidità, di preconcetti, non
teme il futuro e dell’ignoto si nutre. Forse per questo la voce della Vighy ci arriva da un altrove imprevisto, eppure chiara e
libera da interferenze. La sua verità così intima e dolorosa, diventa pubblica senza essere oscena. La sua, coltissima, ironica,
fanciullesca, è la voce di chi conosce una verità terribile e la vive con grande dignità.
E ne ride.
Si dice che ogni risata avvicini a Dio, ma quelle di Cesarina Vighy non sono nient’affatto divine. Hanno l’odore dello
zolfo infernale e il brio geniale di certe antiche biblioteche. Custodiscono
un’anima forte ma non garantiscono la salvezza eterna. Sono moderne, se non
addirittura post moderne, per estro, insolenza e
capacità divinatoria. Linguisticamente rapidissime in
sprezzo alla lentezza fisica della sua portatrice. Non uccidono ma
ridicolizzano la morte, annunciandola. Sono carezze e schiaffi. Gentilezze
finali, destinate alle persone più care. L’amata figlia soprattutto, l’altra
donna, quella con la quale ogni madre si confronta sempre con tormento e che
desidera come e ben più dello specchio di Biancaneve.
“A
volte me lo svuoterei con un cucchiaio il cervello, per metterci dentro roba
buona e fresca” scrive l’autrice di sé, quando il brulicare dei suoi pensieri
si fa troppo intenso, ma sono solo momenti. Per il
resto del percorso la sua scrittura resta quella di un
grande autore: incontro felice di personalità, struttura e lingua. Affermazione
condivisa e strenuamente difesa del sé. Solido filtro di un io che ha vissuto la propria esistenza con intensità e tenta di
offrire la sua visione del mondo, la più completa e onesta possibile, benché
rinchiusa nel recinto delle sue quattro mura e pur servendosi del solo ausilio
tecnico di alcuni gatti, un marito sorprendentemente devoto e un albero da
giardino. Una visione completa forse proprio perché offerta dal limitare
dell’abisso, confine ardito proibito ai più, lungo il quale vibra solo il barbaglio
di un onesto, pungente, determinato e progressivo rodarsi del pensiero.